Culture diverse

Conosco molto bene la realtà del carcere di femminile di Rebibbia, perché da anni mi occupo dei bambini che vivono lì con le loro madri. Sono stato invitato da Giovanna e Mariarita a partecipare a questo incontro di “Parla con noi”. Normalmente questi confronti si svolgono su tematiche femminili. La maggior parte delle detenute sono di etnia rom, la loro cultura è prettamente maschilista, il ruolo della donna è quello di fare figli, occuparsi della casa e portare i soldi a casa in qualunque modo. Dunque sono succubi totalmente dell’uomo.

In questo incontro, con la presenza di due uomini, Mariarita ha lanciato un tema scabroso su cosa ne pensano dell’omosessualità. All’incontro erano presenti tre diverse culture: quella rom, quella mussulmana e quella italiana. Mariarita ha chiesto cosa ne pensavano dell’omosessualità? Subito le rom hanno detto che gli faceva schifo, per loro era inammissibile, se succedono cose del genere la persona viene cacciata dalla comunità per sempre, ed è una situazione vissuta come un grande disonore per la famiglia. Su questo è iniziato un dibattuto molto interessante.

La maggior parte era contraria in assoluto, qualcuna si poneva invece degli interrogativi. Dicendo che va bene cacciarli da casa ma come puoi tu “madre” cancellarlo dal cuore?

Un’altra più permissiva dice: “forse quando uno è giovane vuole provare un po’ di tutto, ma poi torna ad essere “uomo””.

Un’altra ha fatto una distinzione sull’omosessualità in carcere, come dire che in questo contesto è quasi ammissibile.

A questo punto gli ho lanciato una provocazione dicendo che loro il problema ce l’hanno in casa, perché molti adolescenti rom maschi si prostituiscono alla Stazione Termini. Questa affermazione ha creato un attimo di sconcerto e hanno risposto che lo fanno per i soldi, ma poi tornano ad essere “uomini”.

A questo punto Mariarita chiede alla mussulmana cosa ne pensa lei. La donna taglia corto dicendo che per i mussulmani è la colpa più grave dunque gli va tagliata la testa, punto!

Le chiediamo quali sono le altre colpe gravi nella sua cultura.

A questo punto succede una cosa divertente, la mussulmana continua dicendo chi ruba la prima volta viene ammonito, la seconda gli tagliano la mano, la terza volta gli tagliano l’avambraccio e via così. Questa è la legge punto! (dico io è la legge del Taglione!)

Potete immaginare a questo punto a reazione delle rom: visto sono tutte lì per furto continuato, sarebbero tutte con i moncherini!

Pausa d’ilarità. Mariarita chiede all’italiana cosa ne pensa lei. La donna risponde che per lei ognuno è libero di amarsi come vuole, certo se succedesse a suo figlio gli dispiacerebbe ma cercherebbe di capire. Su una cosa è molto ferma, è contraria all’adozione di un bambino da parte di una coppia gay.

A questo punto si conclude l’incontro, vedo nei loro occhi un po’ di sconcerto, ma nello stesso tempo contente di aver partecipato alla discussione come protagoniste e non essere considerate rifiuti della società che non hanno voce. Per me è stata un’esperienza bellissima, mi ha confermato che il dialogo abbatte i muri e costruisce ponti . Ringrazio molto Giovanna che è stata l’ideatrice di questi incontri.

Mi viene da fare una mia considerazione finale: in questo momento storico, in cui si sentono “strani” venti di razzismo, che i primi ad essere uccisi nei campi di concentramento nazisti furono proprio i rom, gli omosessuali e gli ebrei!

Quale sarebbe per voi il carcere ideale?

La prima volta che partecipavo ad un progetto di questo tipo, la prima volta che mi confrontavo con loro che per tanto tempo ho immaginato e per tanto tempo ho pensato a cosa poter loro chiedere, per tanto tempo ho pensato di cosa con loro avrei potuto parlare e all’improvviso, una volta entrata nel nido di Rebibbia, tutti i pensieri che avevo fino a pochi istanti prima, sono svaniti. Un nodo alla gola, il mio immedesimarmi in loro e cercare di capire se al loro posto ce l’avrei fatta!

Siamo entrate nella sala comune, il tempo delle presentazioni e ci siamo tutte sedute in cerchio; davanti ad un buon gelato abbiamo iniziato a parlare. Il tema proposto da Maria Rita è stato “L’Ambiente” ma nessuna delle mamme sembrava interessata all’argomento, fino a che una di loro esplicitamente ci ha detto: “non ci importa niente di parlare di queste cose!” e da lì abbiamo iniziato a cercare di capire di cosa volessero parlare. Una donna prende la parola: “Come possiamo aiutare qualcuno che ci chiede aiuto?”, una domanda che credo nessuno di noi si aspettava, una domanda a cui è difficile rispondere, una domanda che probabilmente ci ha fatto perché di aiuto ne aveva bisogno lei.

Abbiamo iniziato a parlare della mancanza che sentono dei loro mariti, dei loro figli e sentiamo la voce di colei che quando siamo entrate era sdraiata in un angolo, silenziosa, con gli occhi spaventati… non parla italiano, ma riusciamo a comunicare in inglese; parlando dei figli inizia un lungo pianto che sarebbe durato per tutte e tre le ore che noi saremmo rimaste lì.

È stato soprattutto in quel momento che mi sono sentita impotente, è stato come se non avessi più la forza di parlare, vedere quella donna disperarsi ha creato in me un magone quasi da convincermi che emozionalmente non avrei resistito per il tempo necessario. Maria Rita ha cercato poi di alleggerire gli animi cercando di trovare un argomento più allegro… Le donne erano prese, però, da ben altro!! Attendevano con ansia l’arrivo delle 17, ora in cui avrebbero potuto prendere lo stereo ed ascoltare dei cd con la musica che avevano richiesto; attirare la loro attenzione non era più facile.
Ecco arrivate le tanto attese 17, le mamme rom non stavano più nella pelle, avevano ben 3 cd pieni delle loro canzoni… una volta spinto il tasto “play” hanno iniziato a cantare, qualcuno ci ha mostrato qualche mossa di ballo ed altre si sono emozionate fino a piangere.
Abbiamo tenuto la musica di sottofondo mentre continuavamo a parlare e Maria Rita domanda: “Quale sarebbe per voi il carcere ideale?”
Le risposte sono state svariate, ma quasi tutte avrebbero voluto un po’ più di libertà con i loro bambini…
Una donna egiziana a questa domanda ha risposto: “non c’è un carcere ideale, il carcere è sempre carcere!”
Io non ho avuto modo di rispondere a questa domanda, ma probabilmente avrei detto: “il mio carcere ideale sarebbe quello che rieduca in maniera ottimale le persone che hanno commesso un reato. Credo che ognuno di noi abbia bisogno di una seconda possibilità!”

Il nostro 25 aprile

Entro nel nido di Rebibbia in punta di piedi.

Ci sono stata altre volte per qualche festa di compleanno e conosco il carcere per una lunga esperienza di volontariato in altri reparti, ma sento che qui, adesso, la situazione è diversa.

La presenza di Donatella, Giovanna e Mariarita, che conosco bene da anni, mi rassicura.

Insieme con una decina di donne, alcune con in braccio il loro bambino, ci sediamo intorno al piccolo spazio destinato a ludoteca; le sedie sono a misura di bambino di tre anni; mi sento instabile, ma mi sono sistemata nello stesso angolo di sempre e questo mi tranquillizza.

Mariarita introduce il tema con qualche riferimento storico; gli interventi si sovrappongono, si alza il tono delle voci; i bambini piangono e strillano.

Capisco subito che le due poesie zingare sulla libertà, che ho in tasca, non ha senso leggerle.

E mi metto in ascolto.

La donna alla mia sinistra mi lancia ogni tanto uno sguardo curioso; non mi ha mai vista, ma sa che sono una volontaria.

Si lascia molto coinvolgere nella discussione. “ Se veramente si vuole, dice ad un tratto, si può smettere”; e ci racconta la storia di sua sorella.

“ L’uomo è condannato ad essere libero” diceva Sartre; mi viene in mente adesso, mentre lei insiste sulla possibilità/difficoltà della scelta.

E poi: “ Ma perché dite che noi zingare rubiamo? Come tantissima altra gente, la mattina usciamo per andare a lavorare: ripuliamo le case.”

“ Ho tanti libri in casa, le dico, tantissimi; solo libri! vieni a ripulirli? ”

Mi guarda prima un po’ perplessa; e poi: ” Non ci penso nemmeno! non mi conviene.”

E mi sorride.

Sulla parola libertà, che rimbalza da un angolo all’altro della stanza, entra in gioco il rapporto con il proprio marito, con la propria cultura e qui, dietro le sbarre, con l’autorità.  Ma è evidente che non si riuscirebbe, adesso, a lavorare insieme sulle due parole, libertà e liberazione, per evidenziare tutte le sfaccettature dell’una e dell’altra, per coglierne la differenza.

Alla mia destra una giovane donna: grandi occhi colmi di tristezza; ha un bambino sulle ginocchia e lo tiene rivolto verso di sé.

Lui gioca con le dita della mia mano sinistra, che muovo per armonizzarle con il movimento delle sue.

Mi guarda; gli sorrido.

Prende il cartellino di riconoscimento che porto appeso al collo; lo osserva; poi passa agli occhiali.

Mi guarda, gli sorrido; lui si volge verso sua madre e le sorride.

Lei non interviene mai nel dibattito che si svolge intorno a noi; si accosta al mio orecchio e chiede; o racconta. A voce bassa, per non disturbare le altre.

Ad un certo punto, guardandomi negli occhi: “ Ma chi è Hitler?”. È attenta quando rispondo.

E dopo un po’: “ Ma è vero che nei campi di sterminio mandavano solo le persone con i capelli biondi e gli occhi azzurri?”.

Ma come posso risponderle, se non capisco? Ci provo, con dolcezza; lei è attentissima.

Solo molte ore dopo, nel silenzio della mia casa, intuisco che forse quand’era piccola qualcuno le ha raccontato così quel pezzo di storia, quasi ad esorcizzare la paura di un intero popolo.

E mi accorgo di volerle bene.

Libertà

Libertà

di Donatella Proietti

La libertà ha il colore celeste, celeste chiaro o bianco o rosso o i colori dell’arcobaleno o quelli più dimessi del grigio chiaro. La libertà ha colori diversi, a seconda dello stato d’animo di queste mamme detenute, riunite in una stanza, detta nido, del carcere di Rebibbia.

La libertà è partecipazione, diceva un canta-poeta, ma partecipazione a cosa?

Il senso della libertà è relativo e, come dice una di queste donne, non è soltanto fuori di qui, ma è anche sentirsi liberi di vivere i propri affetti, la propria famiglia.

Oppure, sempre secondo lei, rubare 60000,00 euro e fare la bella vita.

Certo, questa affermazione colpisce, anche se non è solo dagli zingari (come si definisce lei) sognare una cosa del genere!

E comunque loro non parlano mai di rubare, ma di “lavoro”. C’è una di queste mamme che tiene a precisare che, anche loro, come tanti operai, si alzano la mattina presto per andare, appunto, a lavorare.

E quando io, forse inopportunamente, ma soltanto per cercare di capirne i meccanismi, pongo la domanda su cosa loro proverebbero a sentirsi derubati…beh, loro glissano, ridono e fanno battute, ma non rispondono.

Libertà è anche rimanere chiusi nella propria vita, nel proprio mondo ed accettare che sia il tuo uomo a dirigere la tua vita, perché per te questa è l’unica vita che conosci. E vuoi sentirti libera di rispettarne le regole e i modi di vivere del tuo popolo, del tuo clan. Anche se qualcun altro ti fa notare che c’è dell’altro, anche se qualche altra donna della tua stessa etnia, con impeto, ti butta in faccia il suo disappunto e la difesa della sua libertà di movimento.

Ma se tu pensi che la tua vita non sia fatta di costrizioni, che ubbidire al tuo uomo sia la normalità… allora, forse, anche questa è libertà.

E’ difficile mettersi in discussione, uscire dal proprio mondo per entrare in un altro a noi sconosciuto.

Ognuno di noi pensa di vivere nel giusto perché è questo che ci hanno insegnato i nostri “anziani”, e allora, finché ci stiamo bene, rimaniamoci, salvo accettare tutto ciò che il nostro mondo ci dà e ci toglie, il buono e il cattivo.

E quanta libertà c’è nelle vostre bellissime danze, dove vi fate trasportare da queste musiche meravigliose, dove lasciate che i vostri corpi vadano incontro ai suoni e si adattino perfettamente ad essi…

E quanto è bello danzare con voi, cercare goffamente di imitarvi (direi con scarso successo!) e terminare, come ogni avvenimento che si vive con voi, in questo turbinio di movimento e suono, suono e movimento, quasi a puntualizzare l’appartenenza, comunque di tutte, allo stesso mondo femminile.

Poche ora fa stampa e televisione hanno dato notizia del tragico

evento accaduto oggi all’interno della casa circondariale

Rebibbia Femminile sezione nido.

E’ un luogo ben conosciuto dai nostri volontari che da anni lo

frequentano nella loro attività quotidiana . Qui oggi è avvenuta

la tragedia: dei due bambini che accompagnavano la madre

detenuta, uno è morto e l’altro è in gravissime condizioni.

Di fronte ad un evento di questa portata la nostra associazione

chiede, sulla base dell’indagine aperta dalla Procura di Roma, che

venga accertato scrupolosamente lo svolgimento dei fatti e che, in

modo rigoroso, siano accertate tutte le eventuali responsabilità.

Questa tragedia ci induce a ribadire, senza la minima volontà di

strumentalizzare un evento così doloroso, quanto dalla nostra

associazione da anni sostenuto “che nessun bambino varchi più la

soglia di un carcere” risponde tanto più ora ad una necessità

morale e di civiltà.

Come associazione chiediamo alla stampa di trattare questo

argomento con il massimo rispetto di chi è coinvolto a livello

umano e professionale.

La tragedia di oggi ci impegna a perseguire i nostri obiettivi con

sempre maggiore impegno e determinazione.

Comitato Direttivo dell’Associazione “A Roma, Insieme – Leda Colombini

Il nostro 8 marzo

L’8 marzo le donne del mondo hanno scioperato. C’era chi lo ha fatto per strada, chi sul luogo di lavoro, chi con in braccio un figlio, e chi da dentro un carcere.

“ Fuori da qui le donne di tutto il mondo si sono organizzate per scioperare affinché i propri diritti siano rispettati. Voi per quali diritti vorreste scioperare?”

Era esattamente un anno fa che incontrai per la prima volta le donne del nido di Rebibbia. Oggi molte di loro sono uscite, ma altre sono entrate.

Ci ritroviamo in cerchio, Giovanna Marina io e le donne con i loro figli. Giovanna rompe il ghiaccio come solo lei riesce a fare, cercando di rendere tutto il più normale possibile. Mangiamo il cornetto e beviamo il cappuccino come se fossimo in un bar qualunque, lontano da muri e da porte che sbattono. I bambini ci guardano incuriositi.

L’idea era quella di parlare di un indumento, un anello, anche un semplice sasso, dal quale però ognuna di noi non riesce a liberarsi. Un qualcosa che non butteremmo mai, come una “seconda pelle”, che custodisce in sé un ricordo, un pezzo della nostra vita. Le donne inizialmente sembravano non capire, parlavano di regali dei mariti, dei loro figli.

“Ci dev’essere qualcosa che appartiene solo a voi! Qualcosa che non vi ricolleghi necessariamente ad un marito, ad un figlio…ma semplicemente a chi siete state voi prima di tutto questo! A chi siete voi ora, a chi vorreste essere a prescindere da un uomo.” Insistevamo, non poteva essere che queste donne si immaginassero solo in funzione di un altro uomo, anche se un figlio. Volevamo ritrovare in loro quello che già c’era, ma che forse avevano dimenticato. Ed ecco che qualcosa emergeva. La madre di Maria, come destata da un lungo sonno, ricorda di una sciarpa appartenuta alla madre. “Era una di quelle sciarpe che andavano di moda allora, con dei colori vivaci…rosso, bianco, blu. Lei lo indossava sempre, e da quando lei non c’è più io non posso liberarmene. Mi ricorda di me piccina, di me quando c’erano ancora mamma e papà.”

La mamma di Maria aveva dato il là ai ricordi di tutte, c’era chi tirava fuori degli orecchini della nonna, chi una foto di tanti anni fa. “Nella foto ci siamo io e i miei fratelli, ma soprattutto c’è mia nonna. Lei, lei c’è sempre stata per me, anche quando mamma andava via, lei rimaneva. Quel ricordo, quel momento è racchiuso in quella foto, che tengo sul mobiletto…sempre.” Mentre parlano e i loro pezzi di vita riaffiorano mi chiedo come dev’essere per loro parlare di qualcosa che non avrebbero mai abbandonato e che ora, per forza di cose, non possono vedere né toccare, ma al massimo ricordare. La ragazza che mi stava accanto, tentando di tranquillizzare il figlio che le sgattaiolava tra le gambe, ci fa un cenno: “Ecco, anche io ce l’ho. Certo! È un foulard che ho sempre avuto, me lo diede mio fratello. Sapete lui ha creduto per lungo tempo che fossi sua madre, per anni a dirgli che ero la sorella, ma niente. Si ricordava gli anni in cui io, appena quindicenne, mi son presa cura di lui, ma solo perché mamma non poteva. Lei era qui, in carcere. Quegli anni son stati belli, facevo tutto tutto eh, da vera mammina. Ora che è grande siamo più che fratelli, è il mio amico. E quel foulard rosso (che poi a dirla tutta a me il rosso non m’è manco mai piaciuto), ora non lo mollo più. Sta di là, “in matricola” ad aspettarmi.

Tra un ricordo e l’altro, con Giovanna e Marina cercavamo di capire quale fosse il filo che li racchiudesse tutti, cos’era che più di tutto emergeva dalle loro storie. Era la fanciullezza. Tutto in qualche modo le ricollegava a quando erano piccole, a quando il loro mondo era fatto di mamma e papà che cucinavano, di nonna che li accudiva, dei fratelli che giocavano con loro. E come se avesse immaginato i nostri pensieri la mamma di Geronimo, la più grande, quasi urlando ferma il gruppo : “ Ci chiedete dei momenti importanti nella nostra vita, nella nostra cultura il momento più importante è quando perdi la verginità, e perdendola troppo in fretta, è tanto importante quanto scioccante. Io a 12 anni non ero più bambina, non può esser così, non deve essere più così. Ecco perché i ricordi più belli son quelli di quando eravamo piccole, perché sono rari, troppo rari. Noi, noi donne, dovremmo ricordarci di più di chi siamo, di quanta forza abbiamo, anche più grande di quella dei nostri uomini. Siamo toste, sì.”

Finisce di parlare incrociando gli occhi di Giovanna, sa che lei può capire. Le altre la guardano sorprese, chissà se sanno di averla anche loro quella forza.

Giovanna mi ha accennato che ci fu l’idea da qualche parte di creare un museo che raccogliesse oggetti normali, oggetti appartenuti alla “gente comune”, niente quadri di grandi pittori o diamanti di splendide principesse. “Qualcosa che custodisse la nostra presenza sulla terra, quel qualcosa al quale non avremmo mai rinunciato in vita”. Ripercorrendo la giornata di oggi, capisco quanto ogni oggetto di queste donne, di noi donne, può risultare prezioso. Il foulard della madre di Maria, gli orecchini, la foto, la sciarpa della mamma di Giovanna, la maglia della zia di Marina, possono avere il potere di custodire la parte più autentica di noi. Al di là delle culture e al di là delle sbarre, quella parte rimane lì ad aspettare che prima o poi, ci ricordiamo di lei.