Il nostro 25 aprile: libertà e liberazione
Entro nel nido di Rebibbia in punta di piedi.
Ci sono stata altre volte per qualche festa di compleanno e conosco il carcere per una lunga esperienza di volontariato in altri reparti, ma sento che qui, adesso, la situazione è diversa.
La presenza di Donatella, Giovanna e Mariarita, che conosco bene da anni, mi rassicura.
Insieme con una decina di donne, alcune con in braccio il loro bambino, ci sediamo intorno al piccolo spazio destinato a ludoteca; le sedie sono a misura di bambino di tre anni; mi sento instabile, ma mi sono sistemata nello stesso angolo di sempre e questo mi tranquillizza.
Mariarita introduce il tema con qualche riferimento storico; gli interventi si sovrappongono, si alza il tono delle voci; i bambini piangono e strillano.
Capisco subito che le due poesie zingare sulla libertà, che ho in tasca, non ha senso leggerle.
E mi metto in ascolto.
La donna alla mia sinistra mi lancia ogni tanto uno sguardo curioso; non mi ha mai vista, ma sa che sono una volontaria.
Si lascia molto coinvolgere nella discussione. “ Se veramente si vuole, dice ad un tratto, si può smettere”; e ci racconta la storia di sua sorella.
“ L’uomo è condannato ad essere libero” diceva Sartre; mi viene in mente adesso, mentre lei insiste sulla possibilità/difficoltà della scelta.
E poi: “ Ma perché dite che noi zingare rubiamo? Come tantissima altra gente, la mattina usciamo per andare a lavorare: ripuliamo le case.”
“ Ho tanti libri in casa, le dico, tantissimi; solo libri! vieni a ripulirli? ”
Mi guarda prima un po’ perplessa; e poi: ” Non ci penso nemmeno! non mi conviene.”
E mi sorride.
Sulla parola libertà, che rimbalza da un angolo all’altro della stanza, entra in gioco il rapporto con il proprio marito, con la propria cultura e qui, dietro le sbarre, con l’autorità. Ma è evidente che non si riuscirebbe, adesso, a lavorare insieme sulle due parole, libertà e liberazione, per evidenziare tutte le sfaccettature dell’una e dell’altra, per coglierne la differenza.
Alla mia destra una giovane donna: grandi occhi colmi di tristezza; ha un bambino sulle ginocchia e lo tiene rivolto verso di sé.
Lui gioca con le dita della mia mano sinistra, che muovo per armonizzarle con il movimento delle sue.
Mi guarda; gli sorrido.
Prende il cartellino di riconoscimento che porto appeso al collo; lo osserva; poi passa agli occhiali.
Mi guarda, gli sorrido; lui si volge verso sua madre e le sorride.
Lei non interviene mai nel dibattito che si svolge intorno a noi; si accosta al mio orecchio e chiede; o racconta. A voce bassa, per non disturbare le altre.
Ad un certo punto, guardandomi negli occhi: “ Ma chi è Hitler?”. È attenta quando rispondo.
E dopo un po’: “ Ma è vero che nei campi di sterminio mandavano solo le persone con i capelli biondi e gli occhi azzurri?”.
Ma come posso risponderle, se non capisco? Ci provo, con dolcezza; lei è attentissima.
Solo molte ore dopo, nel silenzio della mia casa, intuisco che forse quand’era piccola qualcuno le ha raccontato così quel pezzo di storia, quasi ad esorcizzare la paura di un intero popolo.
E mi accorgo di volerle bene.