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“Piccole creature che accedono in un carcere per vedere la propria madre, per stare con lei, e, senza saperlo, talvolta, per rimanerci anche per sei lunghi anni…”
Occhi spalancati, sguardi impauriti, passi incerti. Sono quelli dei “bambini forzati” che entrano in un palazzo grosso, quanto mai visto prima, grigio scuro, con le finestre incorniciate da sbarre di ferro. Piccole creature che accedono in un carcere per vedere la propria madre, per stare con lei, e, senza saperlo, talvolta, per rimanerci anche per 6 lunghi ed interminabili anni. E può accadere che un minore, prima di accedere in questi luoghi, venga perquisito, proprio come gli adulti, anche se, ci si augura, da personale specializzato, in un’area apposita, uno spazio “giallo”. Ma, all’ingresso o in qualche angolo vedrà, comunque, agenti penitenziari, in divisa, con le loro rivoltelle inserite nelle custodie e le luci di una stanza, che per quanto illuminata, assomiglieranno davvero molto poco al sole. Magari entrano solo per un colloquio, peccato, però, che, talvolta, ciò avviene anche nelle prime ore della giornata, quando avrebbero la scuola, e dovrebbero stare lì.
Non è un caso che nell’Irlanda del Nord l’organizzazione di visite “a misura di bambino” ha trovato una sua specifica dimensione anche grazie all’istituzione di un Family Supporter Officer (Responsabile dell’assistenza alla famiglia) esclusivamente dedicato al miglioramento dell’esperienza di visita del minore con il genitore detenuto.
Nel primo “libro bianco” redatto sulla “situazione carceri e figli di detenuti in Italia” si è presentata nel 2011 la ricerca condotta dall’Associazione Bambinisenzasbarre, finanziata dall’Unione Europea, diretta dall’Istituto Danese per i Diritti Umani (DIHR), in collaborazione con la rete Eurchips, l’Università Statale Bicocca di Milano, e con il Ministero della Giustizia, Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria e il PRAP della Lombardia.
Il dato impressionante emerso è che, ogni anno, 100 mila bambini in Italia e circa 900 mila in Europa diventano orfani di fatto, quando i genitori varcano la soglia del carcere. Se non viene mantenuto il legame con i genitori, quei figli, a loro volta, rischiano anch’essi di trovare la galera da adulti o adolescenti, per rabbia, povertà, assenza di strumenti di sostegno, portandosi dietro, per tutta la vita, un bagaglio di sofferenza ed un’esistenza monocromatica, senza troppe speranze.
Questa è la vera punizione dell’innocente.
Le sfide di valore partono sempre da una concezione di cultura, come meccanismo propulsore. La “portabilità dei diritti sociali” anche all’interno delle mura carcerarie rappresenta, allora, quel tassello di giusto equilibrio tra pena detentiva, sofferenza e ruolo genitoriale. Mai più barriere, mai più freni inibitori, mai più veli opachi che feriscano la sfera umana del minore e, di riflesso, del carcerato.
È il momento di voltare pagina, restituendo una vita dignitosa alle relazioni familiari, perché i figli sono davvero le prime vittime di una custodia cautelare in carcere, o di una pena detentiva divenuta irrevocabile: strappati al loro normale crescere, per essere catapultati in un mondo con poche certezze e quasi nessun diritto verso i genitori. E così, reciprocamente, creando uno stallo, una paralisi a quell’imprescindibile rapporto naturale tra genitori e bambini, fatto anche di scambio relazionale fisico.
Non ci può essere diritto se una società non è in grado di accogliere o creare un tessuto che garantisca in maniera flessibile il trasferimento del principio della genitorialità condivisa, coevo ad ogni relazione familiare, in ogni luogo, seppur con gli adattamenti del caso. Occorre una solida mobilitazione cognitiva che abbatta il preconcetto di base: prigione non può essere più sinonimo di automatica perdita della potestà genitoriale, né di totale svilimento dei rapporti di filiazione.
Si sconta la pena per il reato commesso, ma si mantiene la dignità di genitore, restando il minore sempre figlio.
Un muro non può e non deve separare il fatto genetico dell’avvenuta procreazione dalla persona e lo Stato democratico deve garantire un equilibrato livello d‘interazione tra genitori e prole. Le grandi riforme sociali passano attraverso l’esaltazione dei diritti umani, a partire dalla scuola per finire nelle carceri: lo Stato, proprio nei luoghi più a rischio, deve continuare a mantenere vivo ed anzi a rafforzare “il patto di alleanza sociale” stretto con il cittadino per la protezione dei più deboli.
Non azzerare la vita di un figlio perché una madre è entrata in carcere dovrebbe essere il primo obbiettivo, di cultura progressista democratica, verso una relazione familiare garantita ad ogni livello. Ma calarsi nel contesto carcerario vuol dire anche trovare spazi idonei dove far crescere un bambino.
Sono quasi due anni che è stata promulgata legge 62/2011, ma l’idea che un minore non debba mai più mettere piede in un luogo duro e cupo, come è quello del carcere, è rimasta, ancora, troppo sulla carta. Il nuovo punto di partenza è che, necessariamente, debbano essere costruite strutture idonee, dove avvengano incontri per non danneggiare l’armonico ed equilibrato sviluppo del minore. Un progetto rimasto ancora in itinere, peraltro di applicazione concreta anche grazie all’impegno delle associazioni di volontariato. Braccia forti che contano molti esperti, nati dal mondo del volontariato ma che dedicano, seriamente, intere giornate ai minori in carcere.
Un lavoro silente nella “città degli invisibili.”
Nel carcere romano di Rebibbia l’Associazione A ROMA, INSIEME-Leda Colombini svolge da sempre una concreta attività volta a rendere la vita dei bambini mena afflittiva possibile e quanto più vicina a quella che spetterebbe loro di diritto.
Com’è esattamente illustrato nel programma – manifesto dell’Associazione, sin dal 1991 i volontari di “A Roma, Insieme-Leda Colombini” trascorrono l’intera giornata del sabato fuori dal carcere con i bambini e le bambine della sezione Nido di Rebibbia (c.d. sabati di libertà). La missione è quella di aprire lo stretto confine del loro sguardo, cercando di offrire il maggior numero possibile di stimoli con scenari diversificati, fuori dal carcere, facendo in modo che le giornate trascorrano, secondo la stagione, presso amici e sostenitori, ospiti in campagna o al mare, nei parchi cittadini, al Bioparco o dovunque si possano creare momenti di gioco, per la crescita e scoperta di un mondo avulso dal grigiore carcerario. L’Associazione organizza feste, intrattenimenti, giochi e musica, per far vivere ai minori il mondo esterno, attraverso momenti di normalità nelle occasioni importanti dell’anno (compleanni, Natale, Befana, ecc…). L’Associazione, inoltre, consapevole dell’importanza di stimolare la crescita intellettiva ed emozionale di questi bambini, e di sostenere il rapporto madre-figlio, già da sei anni propone la realizzazione di due laboratori, uno di Arte-Terapia e l’altro di Musico-Terapia condotti da operatori professionisti. Un ulteriore sguardo è rivolto ai bambini più grandi, che possono visitare le madri in carcere la 2a e la 4a domenica e l’ultimo sabato di ogni mese per l’intera mattinata. Per favorire questi incontri “A Roma, Insieme-Leda Colombini”, in collaborazione con altre Associazioni di Volontariato, organizza momenti di gioco, magia, manipolazioni, spettacoli, creando, così, un clima più favorevole al rapporto madre-bambino e aiutando, nel contempo, a trascorrere, al meglio, il tempo a disposizione.
E l’attuale Presidente dell’Associazione “A Roma, Insieme-Leda Colombini”, Gioia Cesarini Passarelli, ha spiegato che «nell’aprile del 2013 il nido del carcere romano è stato intitolato proprio a Leda Colombini, scomparsa nel 2011. Gli studenti del Liceo Artistico Statale “Enzo Rossi” hanno realizzato la targa in ceramica, su un progetto delle detenute. Sono le donne iscritte al corso d’indirizzo arti figurative per la pittura e per la scultura. C’è una forte volontà di cambiamento attraverso la scuola. Dentro la Casa Circondariale è stata creata una sezione staccata dell’Istituto scolastico diretto dalla Preside Prof. Maria Grazia Dardanelli.»
Il mosaico, con elementi in argilla cotti e smaltati, riproduce attraverso una visione immaginifica la figura di Leda Colombini, rappresentata attraverso le sembianze di una fata che protegge i bambini dal lupo. Le alunne possono conseguire un titolo di studio eguale a quello che si può conseguire fuori dal Carcere. Anni fa il Liceo ha diplomato un’alunna per la maturità artistica con il massimo dei voti, unica nel suo genere, con una commissione d’esame interna ed esterna. Un vero fiore all’occhiello. La sezione staccata del Liceo, che ha come responsabile il Prof. Alessandro Reale, ha due classi prime ed una seconda, una terza, una quarta ed una quinta. Nel quinto ed ultimo anno, con esami di maturità, attualmente ci sono ben sette alunne, per un totale di 80-90 di detenute iscritte al corso.
La scuola è, allora, quel ponte di raccordo tra mondo carcerario e l’esterno. Ma non solo: è anche un motore importante per il reinserimento e la risocializzazione dei reclusi, favorendo la creatività e assicurando, nel contempo, il diritto allo studio.
Le strutture penitenziarie devono immancabilmente dotarsi dei servizi educativi per la prima infanzia, nonché, di validi progetti d’istruzione, formazione e accompagnamento al lavoro. Ruolo decisivo ha anche l’opera del mediatore linguistico culturale, per le detenute straniere con prole al seguito.
Il problema è anche quello di diversificare un insegnamento negli Istituti penitenziari essendoci, non solo soggetti detenuti ma anche bambini che devono considerarsi a tutti gli effetti liberi, ma che, d’ora in poi, potrebbero crescere per 6 anni accanto ai loro genitori in strutture apposite o nei nidi attuali. La sfida sarà quella di comprendere quale ruolo potrà avere la scuola e l’insegnamento nella società civile per contribuire a livellare differenze e a far accettare diverse realtà.
Torna così a risuonare l’appello “Fuori i bambini dalle carceri italiane!”, firmato nel 2013 dalle Associazioni Terre des Hommes, A Roma, Insieme – Leda Colombini, Bambinisenzasbarre e Antigone.
Le nuove norme della legge 62/2012 e del decreto attuativo – osservano nel loro appello – non incidono davvero sul destino di molti bambini, anzi rischiano di fare peggio. Perché se prima della riforma i bambini che potevano essere detenuti con le mamme avevano massimo 3 anni, con l’entrata in vigore della nuova legge, rischiano di restare detenuti sino ai 6 anni.
Al 31 dicembre del 2012 – illustra un comunicato firmato dalle quattro associazioni – erano “solo” 40 i piccini presenti nei penitenziari italiani, al seguito delle loro mamme.”Tuttavia, benché i numeri del problema siano così esigui, sembra impossibile trovare soluzioni concretamente lontane dalla detenzione”. E ciò – continua la nota – “nonostante lo stesso Comitato Onu per la Crc (Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia) abbia più volte evidenziato all’Italia la necessità di risolvere con urgenza questa delicata questione.”
Ed ecco che le quattro associazioni rilanciano lo stesso appello che precedette l’approvazione di una legge di riforma sulla disciplina delle madri detenute con bambini, avvenuta nella primavera del 2011. Nonostante gli auspici degli operatori e gli stessi propositi del Parlamento, il testo, frutto di compromessi che, a loro giudizio, ne hanno inficiato la reale portata, oggi non impedisce a decine di bambini di varcare la soglia di un carcere nel nostro Paese.
“Sei i punti deboli della riforma che vengono sottolineati:
1. Permane il rischio concreto che il bambino venga detenuto con la mamma sia in via cautelare, sia in esecuzione pena, nonostante – per questa seconda ipotesi – siano state agevolate le condizioni per accedere ai domiciliari speciali.
2. Si innalza a 6 anni l’età dei bambini che possono essere soggetti con le loro mamme a misure cautelari anche in carcere.
3. Non viene garantito il diritto alla madre di poter assistere il figlio, in caso di malattia o ospedalizzazioni, per tutta la durata della stessa.
4. Permane l’automatica espulsione della donna extracomunitaria irregolare, che abbia scontato la pena con tutte le conseguenze che questo implica sul figlio.
5. Vengono finalmente introdotte dalla riforma le Case Famiglie Protette, realtà completamente sganciate dal mondo penitenziario, ma questo istituto non viene promosso (è escluso qualsivoglia onere a carico del ministero della Giustizia).
6. Si continua a puntare sulle I.C.A.M. (Istituti di Custodia Attenuata per Madri detenute), quali uniche, vere alternative alla detenzione per le madri con bambini, pur trattandosi di strutture sempre e comunque detentive, per quanto attenuate.
Da qui nascono le richieste di Terre des Hommes, A Roma, Insieme – Leda Colombini, Bambinisenzasbarre e Associazione Antigone rivolte al Ministero della Giustizia e al Parlamento.
Al primo si chiede che “venga riconsiderato il piano di costruzione di I.C.A.M. in diverse città italiane, nell’ottica di convertire risorse preziose in favore di quelle che, sì, dovrebbero essere la vera soluzione cui puntare: le Case Famiglia Protette.” Chiediamo – scrivono le quattro associazioni – “che ciò sia reso possibile stornando parte dei fondi destinati alla costruzione delle I.C.A.M. in favore della effettiva attivazione delle Case Famiglia Protette, alla luce del principio di cui alla L. 62/2011 per cui le stesse sono previste “senza oneri aggiunti per lo Stato.”
A entrambi viene chiesto “per quanto di loro reciproca competenza, di tenere conto di questi concreti rilievi, intervenendo per mettere fine alla detenzione dei bambini.”
Un vero e proprio esercito di bambini, figli di genitori detenuti, ogni anno entra nelle 213 carceri italiane per dare continuità al legame affettivo con il proprio papà o la propria mamma detenuta. Una cifra imponente che non può essere demandata a provvedimenti che escludano o limitino il diritto di un bambino a vedere il proprio padre il giorno della recita scolastica, nel primo giorno di scuola, o, ancora, nel giorno del compleanno ovvero in caso di malattia.
In particolare, la vera battaglia che si chiede al Parlamento Italiano è quella di rendere perfettamente applicata la Risoluzione 2007/2116 (INI) approvata a Strasburgo il 13 marzo 2008 che ribadisce all’articolo 24 l’importanza del rispetto dei diritti del Fanciullo indipendentemente dalla posizione giuridica del genitore: perché a tutti i bambini sia rispettato il diritto di essere bambini, anche laddove il genitore stia espiando una pena detentiva.
“Non un mio crimine, ma una mia condanna” (“Not my Crime, Still my Sentence”) è il forte slogan, utilizzato per presentare una petizione al Parlamento Europeo, voluta da Eurochips (European network for Children of Imprisoned Parents), e sensibilizzata dall’Associazione Bambinisenzasbarre, poi raccolta dall’Euro deputata Patrizia Toia che ne ha fatto oggetto di una vera e propria interrogazione al Consiglio d’Europa ed alla Commissione Europea chiedendo quali iniziative la Commissione intendesse portar avanti e se recepisse il proposito di adottare “norme minime di protezione dei detenuti che pongano l’accento sui diritti dei bambini, figli di detenuti.”
Come ha osservato la Presidente dell’Associazione A Roma, Insieme-Leda Colombini, Gioia Cesarini Passarelli: «sul tema abbiamo sollecitato il Senato ad un’audizione per evidenziare i profili di criticità che interessano la drammatica cifra concernente i figli dei detenuti che, ogni anno, accedono nelle strutture penitenziarie per incontrare il proprio genitore. Non ci fermeremo e continueremo a fare interpellanze ad ogni livello. Noi ci battiamo perché vi siano ambienti sani e strutture adeguate alla crescita dei bambini. È impensabile che un bambino libero debba mettere piede dentro un carcere e vivere lì accanto alla madre, in un luogo, che è sempre di detenzione, senza ricevere quei normali stimoli esterni, con il rischio di contrarre malattie.»
L’audizione, nell’11a seduta, si è tenuta il 23 luglio 2013, davanti alla Commissione Straordinaria per la Tutela e la Promozione dei diritti Umani, presieduta dal Presidente Luigi Manconi e sono intervenuti, ai sensi dell’art. 48 del Regolamento, sia l’Associazione A Roma, Insieme – Leda Colombini che Bambinisenzasbarre, quest’ultima presieduta da Lia Sacerdote.
Non c’è dubbio che è giunto il momento di rompere quel velo d’indifferenza nato da un atavico preconcetto del mondo esterno. Il riconoscimento e la visibilità di questi bambini rappresentano il primo motivo di progresso culturale che deve passare con un progetto di “portabilità territoriale dei diritti del fanciullo” partendo anche dalla scuola, perché sia loro riconosciuto che sono portatori di specifici bisogni, senza che subiscano ingiuste discriminazioni o pregiudizi nella crescita che, spesse volte, avviene in ambienti non idonei, quali sono, appunto, gli istituti penitenziari.
L’estrema vulnerabilità dei minori in queste situazioni deve portare ad un nuovo assetto strutturale della società civile. I bambini nati da genitori poi detenuti in carcere non sono figli di un Dio minore.
Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria conosce bene la problematica, tanto che sin dal dicembre 2006 ha avviato la sperimentazione degli I.C.A.M. a Milano, quale frutto di un accordo raggiunto tra Ministero della Giustizia, Regione Lombardia, Provincia e Comune di Milano. L’istituto dipende dalla Casa Circondariale di S. Vittore. Si tratta di uno stabile di circa 420 quadri di proprietà della Provincia di Milano, con portineria, sala colloqui, sala polivalente/biblioteca attrezzata con tv e computer, lavanderia, giocoteca, camere da letto, cucina ed infermeria. Lo spazio per le attività ludiche è stato organizzato seguendo i suggerimenti del modello degli asili nidi del Comune di Milano.
In una nota Agi del 24 ottobre 2013 si rende noto che, secondo i dati forniti dallo stesso Ministro della Giustizia, attualmente sarebbero 44 le donne recluse con bambini (i piccoli sono 45 in totale) d’età compresa tra zero ed i 3 anni. Ma dal primo gennaio 2014 sarà possibile la permanenza in carcere con il genitore per i bambini sino a 6 anni e, quindi, a tale scopo, si prevede la realizzazione di nuovo Istituti di Custodia Attenuata per le detenute madri. In Italia, continua la nota Agi, sono attivi, al momento, solo due I.C.A.M., uno a Milano con 8 mamme e 8 bambini e l’altro a Venezia, che ospita 5 mamme ed altrettanti minori. Il progetto del Guardasigilli Annamaria Cancellieri, prevede l’apertura di I.C.A.M. in Piemonte (in fase avanzata di attuazione, che ospiterà anche le donne detenute in Liguria), a Firenze, in Campania (attivo anche per Abruzzo e Molise), a Capodarco (per le detenute di Marche e Umbria), a Roma (in zona Casal del Marmo) e poi in Sardegna ed in Sicilia.
Per quanto concerne la seconda tipologia, e cioè le Case Famiglia Protette, il Ministero della Giustizia, in data 26 luglio 2012, aveva finalmente emanato il decreto ove erano state individuate le caratteristiche tipologiche della Case Famiglia Protette, dimostrando sensibilità alla tematica. Una tra tutte le peculiarità è che dovranno essere collocate “in località dove sia possibile l’accesso ai servizi territoriali, socio-sanitari ed ospedalieri, e che possano fruire di una rete integrata a sostegno sia del minore sia dei genitori. Le strutture hanno caratteristiche tali da consentire agli ospiti una vita quotidiana ispirata a modelli comunitari, tenuto conto del prevalente interesse del minore.“
Pur essendo le Case Famiglia Protette la soluzione migliore per tutelare l’interesse superiore del minore a vivere i primi anni di vita dentro un habitat “a misura di fanciullo”, e ciò anche in conformità alle direttive della Convenzione dei Diritti dell’Infanzia, invero, nessun fondo sembra essere stato destinato dall’Amministrazione. Il testo all’articolo 4 della legge 62/2011, infatti, così prevede: “Il Ministro della giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, può stipulare con gli enti locali convenzioni volte ad individuare le strutture idonee ad essere utilizzate come Case Famiglia Protette.”
Si era affacciata una velata speranza, tracciata dal dubbio semantico della legge 62/2001 del citato art. 4, laddove si parlava di “nuovi o maggiori oneri”, potendosi intendere che almeno i vecchi fondi avrebbero potuto essere destinatati a tal fine. È, invece, prevalsa un’interpretazione ministeriale restrittiva della disposizione, senza che, poi, vi fosse alcun emendamento nella legge di stabilità. Per cui, ormai, dallo stesso citato testo del decreto ministeriale datato 26 luglio 2012 dell’allora Guardasigilli Paola Severino, risulta che “nessun onere finanziario graverà in capo all’Amministrazione Penitenziaria per la realizzazione e gestione delle strutture, essendo destinate dalla legge a soggetti non inseriti nel circuito penitenziario.”
Ma questo decreto ministeriale ha avuto una storia particolarmente tortuosa: con successivo D.M. dell’11 gennaio 2013 di revoca viene annullato, in quanto adottato in carenza del presupposto della intesa con la Conferenza Stato-Città ed Autonomie Locali, previsto dall’art. 4 legge 62/2011 e, poi, ne viene emanato un altro, ma solo in data 8 marzo 2013, in virtù dell’intesa poi raggiunta il 7 febbraio 2013. Nel nuovo D.M., però, scompare la precedente e sopra riportata dizione utilizzata “soggetti non inseriti nel circuito penitenziario” che lasciava, invero, assai perplessi. Viene inserito, infatti, che “il servizio sociale dell’amministrazione penitenziaria interviene nei confronti dei sottoposti alla misura della detenzione domiciliare secondo quanto disposto dall’art. 47 quinques, 3°, 4° e 5° comma dell’Ordinamento Penitenziario”, restando ferma, dunque la facoltà per il Ministro della Giustizia, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, di stipulare con gli enti locali convenzioni volte ad individuare le strutture da utilizzare come Case Famiglia Protette.
Il dato che emerge è, dunque, che le Case Famiglia Protette sembrerebbero essere rimaste escluse dalla copertura finanziaria, come purtroppo riferito dallo stesso Ministro della Giustizia a margine della seduta tenutasi in Senato, presso la Commissione Straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del 24 ottobre 2013: “le risorse per la costruzione di Icam sono modeste e la realizzazione delle Case Famiglia Protette può contare esclusivamente su finanziamenti privati.” (fonte: resoconto Sommario n. 20 del 24.10.2014). Ciò vale a dire che le Case Famiglia Protette, previste in caso di detenzione domiciliare come strutture equivalenti alla privata dimora per tutte le mamme che siano prive di un domicilio, al fine di realizzare e garantire il diritto ad un sano sviluppo dei bambini e la stabilità delle relazioni familiari, dovranno comunque funzionare in tutti quei casi ove non via sia un’esigenza cautelari di eccezionale rilevanza o per soggetti nei confronti dei quali, nel caso di concessione di misure alternative previste, non sussista grave e specifico pericolo di fuga o di commissione di ulteriori gravi reati, e risulti constatata l’impossibilità di esecuzione della misura presso l’abitazione privata o altro luogo di dimora. E, quindi, si augura nella maggior parte dei casi. Ma, allo stato, sembra non esservi traccia di strutture ultimate. In Danimarca, invece, esiste già la casa di riabilitazione Pensione Engelborg, quale parte integrante del programma di reinserimento dei Servizi di detenzione e libertà vigilata, ed appartiene al servizio penitenziario danese, con tanto di educatore sociale ed un assistente sociale. Dentro la casa famiglia possono alloggiare sino a cinque famiglie.
“I pensieri sono perle false finché non si trasformano in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo”, affermava Gandhi. Il rischio da scongiurare, dunque, è che le norme non siano percepite all’esterno solo come entità astratte, avulse da un ambiente che già invisibile lo è come quello della prigione, ma provochino un mutamento concreto del vivere sociale: l’entrata in vigore della legge 21 aprile 2011 n. 62, a cui poi si è aggiunto il decreto del Ministero della Giustizia del 8 marzo 2013, è ormai avvenuta (1 gennaio 2014), ed il tempo, dunque, stringe per evitare la continua e perpetua violazione dei diritti d’infanzia.
Un Paese civile deve sapere accogliere questo appello: ove sussistano le condizioni di legge e la consapevolezza del ruolo genitoriale da parte dei detenuti, i bambini, nei primissimi anni di vita, devono poter crescere accanto alle madri, in un ambiente familiare che non assomigli ad un carcere, perché non vi siano ricordi traumatici di sbarre, riducendo al minimo, con il maggior sforzo possibile, l’insorgenza di problema legati allo sviluppo della sfera emotiva e relazionale. Nel ribaltare il rapporto di prevalenza dei diritti sociali, il sistema penitenziario non dovrebbe trattare i contatti aggiuntivi con i minori come meri “premi” assegnati ai genitori, ma come un diritto preminente del minore, ineludibile. E, all’inverso, come misura disciplinare una madre detenuta non dovrebbe essere privata del contatto con il figlio: il diritto è del bambino, e l’interesse è superiore.
Un bimbo nato libero deve rimanere libero. Ma non fuori, da solo e senza madre, oppure con il solito rimedio di una sentenza di adozione che lo strappi all’affetto del genitore. Protezionismo sociale per i più vulnerabili, null’altro si chiede. Bambini dietro le sbarre mai.
Alberto Sagna
15-01-2014