di Barbara Gobbi e Flavia Landolfi
Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2013
Come casa hanno il carcere romano di Rebibbia, braccio femminile, sezione “Nido”. I lettini sono sistemati nelle celle, accanto a quelli delle madri. Né detenuti né liberi. Né carcerati né semplicemente ospiti.Almeno nella pratica, perché per la legge italiana sono a tutti gli effetti cittadini liberi. Ma a uno, due o tre anni la tua libertà coincide con quella di tua madre. O di tuo padre. Sono i piccoli ospiti dell’Istituto di detenzione romano che, fino ai tre anni di età, sono rinchiusi insieme alle mamme detenute nella struttura di via Bartolo Longo.
Il Sole 24 Ore Sanità è andato a vedere come vivono e come sono assistiti. E ha incontrato il personale di Rebibbia, i medici e anche loro, le mamme. Il nido di Rebibbia è considerato in Italia una best practice. E l’agenda dell’assistenza sanitaria, arricchita con il passaggio di consegne dal ministero della Giustizia a quello della Salute e quindi alla Asl di competenza, ne è la riprova. La figura del
neuropsichiatra infantile è storia recente e la stessa convenzione con l’azienda sanitaria del V Municipio di Roma ha garantito la presenza continuativa, a chiamata, di un pediatra di base. Ma i problemi sono tanti. Molti durissimi per i bambini, che vivono in simbiosi con le proprie mamme per esserne separati a tre anni, quando la legge dispone che a quell’età debbano necessariamente uscire. “Sia per la madre che per il bambino, quel momento è molto traumatico”, spiega Carlo Di Brina il neuropsichiatra infantile che da due anni a questa parte assiste, per quattro ore a settimana, le detenute e i loro figli. Lo shock avviene fin dall’ingresso:“La perquisizione della madre, l’approccio dell’agente al minore, la fase in cui la donna entra in sezione e il piccolo viene affidato a una figura vicariante: tutti questi step – continua Di Brina -sono delicati ed è per questo che stiamo lavorando a procedure standardizzate a tutela della salute mentale dei più piccoli”. Ora però all’orizzonte c’è a gennaio l’entrata in vigore della legge 62/2011 sulla quale non c’è accordo tra gli operatori. La norma dispone un innalzamento di età dei bambini “accompagnatori” delle mamme detenute (fino a 6 anni, recita). Ma qualcuno esclude che questo innalzamento sia riferito al carcere e lo sposta sulle misure alternative, e qualcun altro invece pensa che il rischio di estendere la “platea” dei piccoli ospiti dietro le sbarre sia molto concreto. Quando invece bisognerebbe risolvere il problema alla radice. E come? “Prevedendo le case famiglia che la legge indica come residenza privilegiata – salvo casi eccezionali – per le mamme con figli minori, soprattutto in tenera età”, recitano in coro le associazioni di volontari che lavorano nei Nidi di tutta Italia. Perché nella Penisola c’è un piccolo e sconosciuto esercito di 50 bambini, anche di pochi mesi, che “abita” le patrie galere. E che forse meriterebbe soluzioni meno drastiche. Non solo sulla carta. “Stiamo lavorando perché vogliamo far sì che non ci siano mai più bimbi in carcere”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, in un intervento radiofonico. Il ministro ha detto che è allo studio un provvedimento che consenta ai bambini di “vivere accanto alle mamme detenute in una situazione di tutela ma in una sorta di carcere attenuato. Hanno diritto a un ambiente che non sia il carcere – ha aggiunto – bisogna dunque sottoporre le madri a un regime detentivo diverso dal carcere”.